Cibo nell’arte
Gli articoli per la Giornata Nazionale che celebra il Cibo nell’Arte hanno fino ad oggi preso spunto dal cibo raffigurato in pittura, nel suo significato sociale e storico. Abbiamo ragionato sul senso della “natura morta” in fotografia, abbiamo replicato i piatti di famosi chef contemporanei che si sono ispirati all’arte moderna, abbiamo creato noi stessi della redazione ricette collegate a dipinti di autori famosi come Mondrian e Goya, o come Meléndelez. Abbiamo anche seguito una iniziativa della Galleria degli Uffizi che legava ricette di chef toscani a dipinti esposti nel loro museo, come opere di Caravaggio e del Volterrano; ci siamo persino fatti ispirare dall’intera mostra di una galleria d’arte dedicata alla natura morta.
Questa volta, invece, parliamo del rapporto tra arte e cucina inteso come raffigurazione del luogo della preparazione del cibo. Che, nelle case facoltose ritratte dai pittori dell’epoca, era fondamentalmente diviso in più ambienti: la dispensa, dove gli ingredienti venivano conservati, e la cucina vera e propria, con acquaio, camino e/o stufa e tavolo per le lavorazioni, più qualche stipo per attrezzi e stoviglie.
Parlando di dipinti facilmente visibili dal vivo (basta, per tutti quelli che citeremo, recarsi alle Gallerie degli Uffizi di Firenze), del primo ambiente abbiamo la coppia di meravigliose rappresentazioni di Jacopo Chimenti, che opera nella Firenze di inizio ‘600 dove era conosciuto come “l’Empoli”, per l’origine della sua famiglia.
Pittore apprezzato soprattutto per i suoi temi sacri, a quanto riportano le cronache dell’epoca era talmente goloso da realizzare volentieri nature morte ritratte dal vero e ben disponibile a farsi pagare in natura dai committenti, tanto che la sua voracità gli valse anche lo scherzoso soprannome l’Empilo, che in toscano significa “riempilo”.
In queste sue opere ambientate in dispensa entrano in gioco non solo la raffigurazione del cibo ma anche quella delle abilità umane e l’importanza del tempo, entrambe forme di cura nella trasformazione degli ingredienti, ed anche l’idea seicentesca di abbondanza immortalata nel suo divenire.
Secondo lo storico dell’arte Alberto Veca le dispense da lui ritratte sono diverse dalle classiche nature morte ambientate nei mercati o sulla tavola: “Chimenti dispone il cibo al confine tra il suo aspetto naturale e quello pronto da servire, in quello stadio intermedio in cui frollature, stagionature, maturazioni e conservazioni lo rendono finalmente ‘consumabile’ e lo trasformano da materia prima in alimento.”
L’altro ambiente dedicato al cibo è la cucina, dove possiamo vedere una cuoca al lavoro nell’Emilia di inizio ‘700. La ritrae il bolognese Giuseppe Maria Crespi, pittore tardo-barocco, un vero esteta che vestiva con abiti di foggia spagnola, tanto da guadagnarsi il soprannome di Spagnolo o Spagnoletto.
Dipingeva, oltre a soggetti sacri e mitologici, anche scene di vita quotidiana e ritratti di popolani. E’ il caso del dipinto di oggi, eseguito nel 1710, quindi una novantina di anni dopo le dispense di Chimenti. Nell’interno di cucina che lui inquadra non si vedono cibi ma stoviglie, attrezzi ed una servetta al lavoro di spalle, che da il titolo al dipinto: La sguattera.
Il soggetto lascia i nostri occhi liberi di vagare su arredi e suppellettili della zona di preparazione del cibo, dove cogliamo una placida serenità dell’ambiente, come se da mura, oggetti e dall’atteggiamento stesso della ragazza emanasse una sensazione di tranquilla tradizione quotidiana.
Quale ricetta omaggia meglio il tris di dipinti se non una ricavata da un testo dell’epoca? Ci fa gioco il manoscritto di un collaboratore dei conti Cassoli di Reggio Emilia, che verso la metà del ‘700 (dunque vicino a Bologna ed a cavallo tra le epoche dei dipinti) trascrisse in un “Libro di casa” ad uso interno diverse ricette di cui i signori erano ghiotti.
Il Libro contenente “la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malattie ed altro” e si ispira a piatti noti all’epoca, o perché diffusi localmente o perché appresi da testi più autorevoli. Vengono citate ricette come cotolette in papilloti di ispirazione francese, gigotto all’inglese, o sal craud di cavoli alla tedesca, né mancano raffinatezze come torta di caviale o castagne candite.
Emerge però anche una tradizione popolare locale più che apprezzata alla tavola dei conti, probabilmente per i pasti quotidiani, come ova con l’aglio o coteghini all’uso di Modena, e pure di alcuni prodotti che non erano conosciuti solo pochi anni prima, quando dipingeva Chimenti, tipo la polenta di formento accomodata o la minestra di zucca.
Diverse ricette mantengono un’evidente impronta nobile nonostante le lavorazioni risultino “addomesticate”, come il bianco magiare di mandorle, i carciofi accomodati con funghi e capperi o i biscotti di farina di riso e cedro; molte altre, invece, sono decisamente di impronta familiare, semplici e gustose come gli involtini di vitello e lardo alla griglia, gli gnocchi di miglio in salsa di noci o la minestra di riso, lenticchie e rape.
In un Libro scritto una cucina abbiente, inoltre, affascinano molto e di fatto sorprendono poco le ricette per riciclare gli avanzi: restituiscono la dimensione di una famiglia che, per quanto benestante e certo abituata anche a banchetti di rappresentanza, nell’intimo del desco familiare preferisce cibi semplici, tecnicamente alla portata anche di una cuoca popolare come la servetta del dipinto di Crespi, ed economicamente attenta, come in ogni famiglia di buon senso, ad evitare gli sprechi.
Questa del buonsenso domestico è l’atmosfera che ritroviamo sia nelle dispense di Chimenti che nella cucina di Crespi, dove il cibo è curato e preservato al meglio, le attrezzature sono essenziali, le stoviglie pratiche. Nella cucina lo sfarzo limitato ad alcuni vassoi poggiati a lato, in attesa di essere utilizzati per la sala da pranzo, ma c’è cura nella possibilità di illuminazione della zona di lavoro, nell’ordine con cui ogni oggetto è riposto al proprio posto, nella concentrazione della servetta sull’organizzazione del suo lavoro, nel gatto acciambellato sulla sedia che parla del calore del focolare e della gentilezza degli abitanti della casa bolognese.
Osserviamo inoltre che nelle dispense di Chimenti, fiorentine, precedenti di meno di un secolo e certamente di casa nobile e ricca, la disponibilità di generi alimentari non è poi tanto differente dai racconti del manoscritto: tra l’abbondanza di carni e salumi notiamo anche verdure semplici o pane e formaggio caserecci. Ma poi, su uno dei tavoli, ecco che spicca un pasticcio in crosta… che ricorda moltissimo le ricette riportate nel Libro dove spesso una dorata veste croccante contiene un riciclo di carne cotta.
Jacomo Chimenti -Dispensa con botte
Per il Calendario dunque mescoliamo due di queste ricette, entrambe pervase di buonsenso: una ispirata ad un nobile classico rinascimentale, l’altra che mira solo a dare sapore e tenerezza all’avanzo, forse nel tentativo di spacciarlo (ma non è detto che se ne sia consapevoli) per una ben più nobile fricassea.
Pasticcetti di carne arrostita avanzata.
Tagliate la carne arrostita avanzata dalla taula in piccoli pezzetti e mettetela in cassarola con butirro, erbucci, cipolletta trita, un pizzicotto di farina, e un poco do brodo, sale e pepe, fatela cuocere che divenga spessa, e lasciatela affreddare; fate una pasta frolla e fate tanti pasticcetti secondo la quantità del pieno, e si possono fare tortellini e farli friggere.
Polli avanzati dalla tavola.
Se ne faccia piccoli pezzi, e si facciano cuocere in una cassarola con buon brodo, erbucci, pepe, due rossi d’uovo e un poco d’agro.
Prepariamo così oggi dei tortelli di pollo fritti: la frolla fritta con ripieni dolci è una preparazione oggi molto popolare e diffusa nei paesini appenninici dell’Emilia, di cui ognuno ha una propria variante locale. Qui invece troviamo il senso settecentesco di un guscio dolce con ripieno salato.
Il pollo è arricchitodalla legatura vellutata di burro, farina e brodo della prima ricetta, più i tuorli e la nota aspra della seconda (uova pollo e limone, d’altro canto, appaiono insieme anche in molte ricette e zuppe italiane del ‘600 e ‘700). Andiamo infine sul sicuro scegliendo gli erbucci tra le erbe più spesso presenti in piatti di quell’epoca, sia a Firenze che a Bologna. Ed ecco i nostri:
PASTICCETTI DI POLLO FRITTI
ingredienti per circa 34 pezzi
per la frolla
360 g di farina di tipo 1 (raramente ai tempi la farina era più raffinata)
2 uova
80 g di strutto o burro
1 pizzico di zucchero
1 pizzico di sale
strutto o olio extravergine leggero per friggere
per il ripieno
200 g di carne di pollo cotta*
1 piccola cipolla
1/2 limone non trattato
1 tuorlo
300 ml di brodo di pollo
25 g di burro
25 g di farina
3 rametti di prezzemolo
1 ciuffo di finocchietto
pepe nero al mulinello
sale
(* qui petto di pollo, c.a. 280 g da crudo, passato alla piastra e poi salato, ma sono perfette anche le carni avanzate di pollo o tacchino lessi o arrostiti, private ovviamente di pelle e ossa)
Per la frolla arieggiate la farina con sale e zucchero e disponetela a fontana; versate al centro le uova sbattute e il burro fuso tiepido e lavorate velocemente, se occorre unendo una cucchiaiata di acqua, fino ad ottenere un impasto liscio ed uniforme. Dategli la forma di un un disco spesso, avvolgete in pellicola e tenete in frigorifero circa 1 ora.
Tritate grossolanamente o sfilacciate la carne del pollo; tritate finemente la cipolla e ancora più fini il finocchietto e le foglie di prezzemolo.
Appassite la cipolla nel burro con il finocchietto e i gambi del prezzemolo; tostatevi poi la farina, unite il brodo caldo e cuocete la vellutata per circa 15 minuti a fuoco basso, fino a che è bella densa.
Grattugiate finemente la scorza del limone; spremetene il succo e sbattetelo con il tuorlo.
Spegnete la vellutata e unitevi il pollo e il prezzemolo tritato, una grattata di pepe e la scorza di limone e regolate, se serve, di sale. Quando il tutto si è un po’ intiepidito unite anche il tuorlo sbattuto.
Stendete metà della frolla con il matterello in un rettangolo da circa 45×20 cm spesso 2 mm, tenendo il resto in frigo. Disponete dei cucchiaini di ripieno, oramai freddo, ben distanziati su una metà della sfoglia, coprite con l’altra parte, premete bene i bordi per giuntarli, quindi tagliate in dischi regolari con un coppapasta smerlato da circa 6 cm, ripassando di nuovo i bordi con la pressione delle dita per sigillarli definitivamente.
Reimpastate i ritagli di frolla e ripetere l’operazione fino ad esaurimento, quindi stendete anche la seconda parte di sfoglia, farcitela e tagliatela con le stesse modalità, disponendo man mano i pasticcetti pronti su un telo.
Friggete poi pochi tortelli per volta in abbondante grasso caldo per circa 1 minuto e scolateli quando sono appena dorati da entrambi i lati, asciugandoli su su carta assorbente.
Servite i pasticcetti caldi o tiepidi: a temperatura ambiente perdono un po’ma si possono riscaldare pochi minuti in forno o anche più brevemente nel microonde.
Bibliografia
Benporat Claudio, Storia della gastronomia italiana, 1990, Mursia (il brano citato è a pag. 99)
Fabbri Dall’Oglio Maria Attilia, Il trionfo dell’effimero. Lo sfarzo e il lusso dei banchetti nella cornice fastosa della Roma barocca. Viaggio nell’evoluzione del gusto e della tavola nell’Italia fra Sei e Settecento, R&A, 2002, ISBN 88-87525-03-X
Faccioli Emilio (cura), L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo, Einaudi Editore, 1987 e 1992, ISBN 88-06-59880-5
Flandrin Jean-Louis, “I tempi moderni” in: Flandrin Jean-Louis, Montanari Massimo (cura), Storia dell’alimentazione, Editori Laterza, 1996, ISBN 88-420-5347-3
Morineau Michel, “Crescere senza sapere perchè: strutture di produzione, demografia e razioni alimentari”, in Flandrin Montanari, idem
Veca Alberto, “Immagini del cibo nell’arte moderna” in Flandrin, Montanari, idem
Crediti iconografici
l’immagine del dipinto di Chimenti con il pasticcio è presa qui, quella dell’altro suo dipinto qui
L’immagine del dipinto di Crespi è presa qui