La “frittata rapita” di Gabriele D’Annunzio
Dopo che nei precedenti anni questa giornata è stata dedicata al parrozzo, con la sua storia e ricetta classica, la sua versione monoporzione e l’interpretazione di Iginio Massari, sorge la curiosità di capire di cos’altro fosse goloso Gabriele D’Annunzio.
Abbiamo due modi per scoprirlo: curiosare nelle cucine del Vittoriale, la dimora dove trascorse i suoi ultimi 17 anni di vita, e spulciare tra i suoi scritti, ovvero le lettere che scambiava con gli amici abruzzesi, soprattutto per rimarcare la sua nostalgia per quei luoghi (e per quei sapori!), i bigliettini con cui comunicava con la sua cuoca Albina, da lui chiamata affettuosamente “Suor Intingola”, e le note di vita personale nel suo Libro Segreto del 1935, l’ultima opera da lui scritta il cui titolo esatto è: Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire.
Se dei locali di cucina e dispensa del Vittoriale parliamo qui con una ricetta di pasta,
dalle carte emerge il ritratto di un D’Annunzio nostalgico della sua gioventù pesarese, degli affetti e dell’essenzialità dei sapori delle pietanze della sua terra. Non era una persona golosa, era astemio e preferiva sempre piatti semplici, anche se era importane per il suo senso estetico che venissero presentati con garbo e cura in stoviglie adeguate.
Il cibo, soprattutto negli anni al Vittoriale, quando erano coinvolte altre persone aveva per lui un valore quasi prevalentemente estetico e rappresentava uno strumento di seduzione e di affabulazione. Addirittura talvolta ordinava ad Albina dei piatti raffinati che fossero intonati alla carnagione dell’amante di turno. Per citare Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, il cibo “diventava fonte di piacere, di coinvolgimento emotivo, di seduzione, di bellezza”.
Amava la buona cucina ma era estremamente attento alla linea ed alla eleganza nel consumo, si dice che a volte partecipasse ai banchetti senza quasi mangiare perché il gesto poteva risultare volgare e privo di raffinatezza. Quando era solo, invece, l’organizzazione dei suoi pasti era sregolata come la sua vita, senza orari e regole precise.
Ma da buon abruzzese conosceva la pratica dello sdijuno, alla base del modello alimentare locale e, si dice, della longevità degli Abruzzesi: colazione leggera, ricca merenda verso le 11 e poi digiuno fino alla leggere cena della sera. La sua abitudine a un mangiare parco è dichiarata in una lettera del 1927 ad un amico: “Certo tu ignori la Regola del Vittoriale. Io abruzzese schietto, da gran tempo ho abolito “l’abbottatura”, esporrò a te igienista antico la mia teoria del digiuno. Per esempio, mentre scrivo, sono digiuno da 38 ore, alla mezzanotte prenderò un lieve pasto”.
Ogni tanto infatti, a scopo curativo, digiunava tre giorni alla settimana e la sua tavola si imbandiva di pietanze ricercate ed abbondanti solo nelle occasioni formali, mentre nei giorni comuni preferiva i prodotti semplici. Nei biglietti alla cuoca ordinava infatti frutta, soprattutto mele cotte o crude, a cui attribuiva un valore erotico, costolette d’agnello, pernice, carne alla griglia, riso, cannelloni, pesce, patate fritte, maccheroni alla chitarra. Ma anche gli alimenti rustici che gli amici gli inviavano dall’Abruzzo come pecorini e salumi.
Era molto goloso di dolcetti: mandorle tostate, biscottini, cioccolato, marroni glassati, i dolci abruzzesi che riceveva dagli amici e, pur non bevendo quasi mai vino (tranne nel periodo in cui visse in Francia) amava i liquori abruzzesi. Impazziva soprattutto per il gelato ma quello a cui davvero non poteva resistere erano le uova, che chiedeva spessissimo ad Albina, sia sode che in frittata, e i cui effetti paragonava a quelli di una “estasi divina”. Le amava a tal punto che al Vittoriale fece costruire un grande pollaio per assicurarsele sempre freschissime.
E qui casca non l’asino ma l’uovo, letteralmente, perché la ricetta di oggi si ispira ad un episodio da lui raccontato nel Libro Segreto: in villeggiatura con amici a Francavilla al Mare, avevano deciso che ognuno avrebbe preparato la cena a rotazione. D’Annunzio era un gaudente, certo, ma non sapeva muoversi in cucina, così quando venne il suo turno pensò che cucinare una frittata sarebbe stato facile, tanto da dichiarare: “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
Rivoltare al salto l’enorme frittata da lui preparata non gli riuscì affatto, ma non si perse d’animo e, da poeta mascalzone, dichiarò che la sua opera era risultata talmente sublime da essere stata rapita da un angelo.
Queste le sue esatte parole:
“In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno e nella gara di nuoto, quando mi fu rammentato con le voci della fame toccare a me la cura della cucina. Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita ad Ebe e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane.
Ruppi trentatré uova del nostro pollaio e dopo averle sbattute… le agguagliai nella padella dal manico di ferro lungo come quel d’una nostra chitarra da tenzone… Uscii con la padella all’aria aperta, scorsi la nova luna nel cielo, adunai la sapienza e il misurato vigore… e diedi il colpo, attentissimo a ricevere la frittata riversa, la frittata non ricadde.
Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala d’un angelo, mi feci di gelo. L’angelo nel passaggio aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita… la recava ai Beati, offerta di perfezione terrestre…”
Oggi non tentiamo nemmeno una frittata di trentatre uova, e nemmeno di dodici, come suggeriscono i ricettari abruzzesi tradizionali per 4-6 persone. Ci limitiamo a proporne una abbastanza classica ma, si sa, ogni casa ha la propria ricetta: chi usa acciughe fresche, chi non mette il pecorino, chi parte da pomodori maturi, chi aggiunge origano… ma uova prezzemolo e peperoncino non mancano mai.
Certamente D’Annunzio apprezzerebbe in ogni caso, se non fosse troppo impegnato a scrutare il cielo in cerca della sua frittata rapita.
FRITTATA DI ACCIUGHE ALL’ABRUZZESE
per 4 persone
6 uova
6 filetti di acciuga sott’olio
240 g di polpa di pomodoro
2 cucchiai di pecorino stagionato grattugiato
1 spicchio di aglio
1 ciuffetto di prezzemolo
½ cucchiaino di peperoncino in fiocchi
3 cucchiai di olio
(sale)
Tritate fini, separatamente, aglio, prezzemolo e acciughe.
Rosolate a fuoco basso aglio, acciughe e peperoncino in un cucchiaio di olio, fino a che le acciughe sono sciolte e l’aglio accenna a dorare.
Unite il pomodoro e il prezzemolo e cuocete a fuoco basso per 15 minuti, fino a che il sughino è bello saporito e ristretto, poi lasciate intiepidire.
Sbattete le uova con il pecorino, mescolatevi il pomodoro ed assaggiate per regolare eventualmente di sale, ma non dovrebbe servire.
Scaldate due cucchiai di olio in una padella larga se volete una frittata bassa, da servire a fette (come qui), o in tegame un po’ più piccolo se preferite una frittata alta, da tagliare a tocchi.
Versatevi il composto di uova e dorate la frittata, cuocendola se è bassa circa 4-5 minuti a fuoco medio-alto prima di voltarla e altri 2-3 di minuti sull’altro lato, un po’ di più a lungo e a fuoco leggermente più blando in caso di frittata alta.
Se non ve la rapisce un angelo mentre la voltate, servite la frittata calda, a fette, come piatto principale o a temperatura ambiente, tagliata a tocchi, per sdijuno.
Per approfondimenti: tutti gli articoli pubblicati su Pescara News della studiosa abruzzese Elisabetta Mancinelli