Il Calendario ha sempre festeggiato il 6 settembre la Giornata del Commissario Montalbano perché questo giorno è il compleanno del suo creatore Andrea Camilleri. Lo scrittore è scomparso a luglio 2019 ma maggior ragione rendergli omaggio oggi è ancora più speciale: celebriamo quindi sia il personaggio che il ricordo del suo autore attraverso la cucina siciliana, tanto amata da Camilleri e dal suo commissario Montalbano, per come viene raccontata nei libri della serie.
Mentre la pasta alla ricotta è stata presentata lo scorso anno, la pasta ‘ncasciata e la norma con lo spada nel 2018
e oltre una dozzina di ricette hanno deliziato i nostri palati nel 2017, quest’anno parliamo di due piatti adorati da Montalbano ma che forse proprio siciliani non sembrano essere! Per gustare insieme al commissario le polpette di pesce alle spezie dell’altra sponda del Mediterraneo possiamo leggerci Il ladro di merendine… oppure vedere qui.
Per capire invece cosa Camilleri intenda per polipo alla napoletana dobbiamo seguire Montalbano in ben due libri (Un mese con Montalbano e Il giro di boa). Probabilmente è una ricetta che Camilleri adorava, tanto che la cita al principio di una meravigliosa intervista a proposito delle sue passioni culinarie rilasciata nel 2005 a La Domenica di
Repubblica.
Lì racconta quanto nella sua infanzia gli insegnamenti e l’esempio di sua nonna siano stati fondamentali nella sua costruzione del gusto… e anche del suo carattere. Eccone alcuni stralci:
“E così lei vuole sapere da me la storia degli arancini di Montalbano, dei suoi polipetti alla napoletana, dei suoi involtini di tonno arrostito. Vuole farmi arriminare in quella zona della mia memoria dove sono sarbàti i profumi, gli aromi, i sapori, le atmosfere e i segreti della tavola del commissario. Cioè della mia. E va bene, parliamone: questo è un tema che puntualmente spalanca la porta della mia giovinezza, è un piccolo viaggio nel tempo che faccio con piacere.
Ma sappia che è una storia lunga, che principia quando io – che oggi ho quasi ottant’anni – ero un picciliddro che aveva sì e no sette anni. Ha voglia di sentirla? E allora s’assittasse. Da dove cominciamo? Senza dubbio da mia nonna Elvira, che era la generalessa della cucina. […]
A mia nonna piaceva fare il pane. Cominciava a famiare il forno, per portarlo a temperatura, e intanto lavorava l'impasto con lo scanaturi. Alla fine, perché venissero ben schiacciate, lei faceva un salto e si sedeva sopra lo scanaturi, spianando bene tutte le forme prima di infornarle. A me toccava la scanatedda, un panino meraviglioso, croccante e profumato. Lo aprivo col coltello, ci mettevo olio, pepe nero e pecorino e lo mettevo nella pressa del nonno. Così questo panino, sciaff, diventava sottile sottile. Io mi andavo a sedere sotto un albero di carrubo con la mia scanatedda spianata e questo, a dieci anni, mi bastava e avanzava per essere felice.
Poi c’era il rito degli arancini. Gli arancini di Montalbano, certo. Mia nonna diceva che prepararli era lungariusu, ci voleva tanto tempo. Perché bisognava preparare la carne, tanto di maiale e tanto di vitello, spezzettandola col tagghiaturi, la mezzaluna. Ci voleva tempo. Si aggiungevano i piselli, un po’ di caciocavallo ragusano e qualche pezzettino di salame, si impastava tutto in un pugno di riso e si passava l’arancino nell’uovo, nella farina e nel pangrattato, per l’impanatura.
Ma non si friggevano subito. No, bisognava aspettare una notte, lasciarli riposare in pace. E il giorno dopo, a tavola, si vedeva com’erano venuti. Perché il problema dell’arancino era il dosaggio, che non era mai lo stesso, e dunque ogni volta mia nonna passava un esame. “Comu vinniru stavota?” domandava. “Un tanticchia asciutti. L’autra vota erano megliu” rispondeva mio nonno. Un giorno li fece in un modo davvero sublime, e io stavo per dirglielo. Mio zio Massimo mi diede un cavuciu sotto la tavola. “Boniceddu” mi sussurrò. Ma perché?, gli domandai. “Perché lei deve sempre superare se stessa: se tu le dai soddisfazione, è finita”. […]
Ho provato, le dico la verità, anche a ripetere altre cose meravigliose della mia infanzia. Come prendere il pane caldo, andare dalla capra e mungere il latte direttamente sulla fetta. Non ci sono mai riuscito. La verità è che i sapori del passato sono irripetibili. Una volta, bevendo l’uovo appena fatto, ti accorgevi subito se la gallina aveva sconfinato nel
campo di trigonella. Oggi… lasciamo stare. Parliamo d’altro. […]
Finita la guerra, potemmo tornare alla casa di campagna. E nonna Elvira riprese il suo posto di comando. Lei era la vera regina di quella casa, e aveva un rapporto speciale con le cose. Parlava con gli oggetti, per dire. Una mattina la sentii parlare da sola, e sbirciai attraverso la porta socchiusa. Si rivolgeva a una saliera del ‘700, una cosa meravigliosa. “Tu sì ‘na cosa fitusa” diceva. “Tu hai vistu mòriri a mè nonnu, hai visto mòriri a mè patri, e ora si ccà e aspetti che moru io. Ma io ti futtu!”. La prese e la buttò dalla finestra: finì in mille pezzi, quella stupenda saliera.”
E di fronte ad una tale personalità sia della nonna che del nipote… come possiamo mettere in dubbio che la ricetta dei “polpi alla napoletana” (che per la verità a Napoli vengono semplicemente lessati e poi conditi con abbondante limone, olio, sale, pepe e prezzemolo tritato) non sia proprio quella che Montalbano tanto apprezza, con olive, pinoli,
capperi, uva passa e chi più ne ha più ne metta? D’altronde qui si parla di ricette siciliane, per loro stessa natura complesse e barocche, perfette anche quando credono di essere napoletane…
“Che voli mangiari?”
“M’hanno detto che lei sa fare benissimo i polipi alla napoletana.”
“Giusto dissero.”
“Li vorrei assaggiare.”
“Assaggiare o mangiare?”
“Mangiare. Ci mette i passuluna di Gaeta?”
Le olive nere di Gaeta sono fondamentali per i polipi alla napoletana.
Filippo lo taliò sdignato dalla domanda.
“Certo. E ci metto macari la chiapparina.”
Ahi! Quella rappresentava una novità che poteva rivelarsi deleteria: non aveva mai sentito
parlare di capperi nei polipi alla napoletana.
“Chiapparina di Pantelleria” precisò Filippo.
I dubbi di Montalbano passarono a metà: i capperi di Pantelleria, aciduli e saporitissimi, forse ci stavano o, nell’ipotesi peggiore, non avrebbero fatto danno.
Prima di muoversi verso la cucina, Filippo taliò negli occhi il commissario e questi raccolse il guanto di sfida. Tra lui e Filippo, era chiaro, si era ingaggiato un duello. Uno che di cucina non ne capisce, potrebbe ammaravigliarsi: e che ci vuole a fare due polipetti alla napoletana? Aglio, oglio, pummadoro, sale, pepe, pinoli, olive nere di Gaeta, uvetta
sultanina,prezzemolo e fettine di pane abbrustolito: il gioco è fatto. Già, e le proporzioni? E l’istinto che ti deve guidare per far corrispondere a una certa quantità di sale una precisa dose d’aglio?
POLPO “ALLA NAPOLETANA” IN VERSIONE MONTALBANO
per 4 persone
2 polpi da circa 6-700 g l’uno
8 pomodori pelati
2 spicchi d'aglio
200 g di olive nere, meglio di Gaeta
4 cucchiaiate di pinoli
2 cucchiaiate di uva passa
1 cucchiaio di capperi sotto sale, meglio di Pantelleria
8-10 rametti di prezzemolo
4 cucchiai di olio extravergine d’oliva
sale
pepe nero al mulinello
pane casereccio per servire
Mettete a bagno i capperi perché perdano il sale; ammollate l’uvetta in acqua tiepida.
Eliminate bocca, occhi e vescica dei polpi e tagliatene la polpa a pezzetti.
Soffriggete l’ aglio schiacciato e quasi tutti i rametti di prezzemolo per un minuto nell’olio.
Unite il polpo e cuocete a fuoco lento, coperto, per circa quaranta minuti, senza aprire, smuovendo ogni tanto il tegame perché non attacchi e l’acqua del polpo non evapori totalmente.
Intanto scolate e sciacquate i capperi, frullateli con i pinoli e un goccio di acqua calda, fino ad ottenere una crema. Spezzettate i pelati scolati, scolate l’uvetta.
Unite pelati, olive, uvetta e crema di pinoli, mescolate bene e cuocete a fuoco basso, semicoperto, per circa mezz’ora, fino a che il fondo si è ristretto ed il polpo è bello morbido.
Pepate abbondantemente, levate aglio e prezzemolo cotti ed unite le foglie del prezzemolo
rimaste, ben tritate.
Servite il polpo con il suo intingolo ed il pane tagliato a fette tostato.