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Pizza, il vocabolo italiano più conosciuto al mondo, che ha saputo oltrepassare mari e monti diventando icona planetaria. E nell’immaginario collettivo, al dolce suono di questa parola, come per incanto si materializza un simbolo tricolore: un fragrante disco tondo di pane,  farcito con pomodoro, mozzarella e basilico. Perchè pizza fa rima con Napoli; ma non è stato sempre così.

Sin dai tempi più remoti si impastavano acqua e farina di cereali vari, inizialmente cotti direttamente sulle braci o su pietre roventi: dagli Egizi ai Babilonesi, dai Greci ai Romani, si sono susseguite varietà di focacce destinate ad un uso quotidiano o speciale, come quelle preparate per il Faraone o per i soldati.

Pizza, dal greco piézō, che significa premere, o dal latino pinso da pinsere, dello stesso significato, che nei secoli si è evoluta in pinza, pitta, pizza: sempre comunque qualcosa di tondo cotto al forno e spesso lievitato. Ma anche dal termine germanico bizzo o pizzo, bit o bite in inglese, che sta per morso, boccone, importato in Italia con l’invasione dei Longobardi nel VI secolo. E a Napoli pizz è un termine che si usa per indicare generalmente un pezzetto o un angolo di qualcosa, come staccare un pezzetto di pasta per farne piccole porzioni da lavorare singolarmente.

La prima testimonianza scritta della parola pizza risale ad un documento notarile del 997 d.C. conservato nell’archivio storico della Cattedrale di Gaeta: a pagamento di un contratto di affitto per un mulino, si offrivano al Vescovo anche regalie mangerecce come animali da cortile e pizze. Molto popolare era in Liguria, a fine ‘400, la Pissa d’Andrea, dedicata all’ammiraglio Andrea Doria, una focaccia genovese arricchita con cipolle, acciughe, olive e formaggio locale e di cui ne resta ancora traccia oggi nella Pissaladière provenzale. E poi ci sono le pizze che ci lascia il grande Artusi nel suo capolavoro “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene”: n. 252 – Pizza a libretti, una sfoglia di pasta all’uovo, ripiegata più volte e fritta; n. 609 – Pizza alla napoletana e n. 610 -Pizza gravida, due crostate farcite alla crema. Tre ricette dolci, perchè ancora a fine ‘800, il termine pizza si usava per torte, quasi sempre dolci, schiacciate e focacce.

Ma pizza fa rima con Napoli e ce lo conferma anche il letterato Emmanuele Rocco, nella raccolta Usi e costumi di Napoli di Francesco de Bourcard: “La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché si fa col fiore, e perché è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli. Prendete un pezzo di pasta, allargatelo o distendetelo col matterello o percuotendolo colle palme delle mani, metteteci sopra quel che vi viene in testa, conditelo di olio o di strutto, cuocetelo al forno, mangiatelo, e saprete che cosa è una pizza. Le focacce e le schiacciate sono alcunchè di simile, ma sono l’embrione dell’arte”. Dunque, un affaire tipicamente partenopeo: pizza e pizzaria sono vocaboli aggiunti nei dizionari di lingua italiana solo dopo l’inizio del XX secolo, restando unicamente nel gergo napoletano fino alla metà di detto secolo.

Pizza nata come cibo popolare, per questo spesso definita cibo dei poveri: costava un soldo e costituiva la colazione o il pranzo del popolo napoletano. E nelle prime pizzarie dell’800 si disponevano, accanto ai tavoli, delle scatole di latta per raccogliere i cornicioni avanzati dai clienti più abbienti, per distribuirli a fine serata ai poveri che affollavano i vicoli.

Pizza come primo cibo di strada, piegata a libretto per una più facile consumazione, preparata con ingredienti semplici e di giornata, venduta nei vicoli dai venditori ambulanti che giravano con le stufe sui loro carretti per mantenerle al caldo.

Pizza che ha saputo conquistare anche gusti nobiliari, omaggiando una Regina col suo profumo delicato, fragrante e irresistibile.

Pizza come primo sistema di credito fiduciario, a ogge a otto: mangi oggi e paghi fra otto giorni, quando tornerai a degustarla da tanto ti è piaciuta. Un sistema ingegnoso per arrotondare le magre entrate di chi viveva nei caratteristici bassi: ci si arrangiava con un fornello e un piccolo bancone sul vicolo per offrire ai clienti la pizza fritta, di più facile preparazione. Memorabile è la scena interpretata da Sofia Loren e Giacomo Furia ne ” L’Oro di Napoli” (1954) di Vittorio de Sica.

Pizza che piano piano è uscita dai suoi confini regionali e ha iniziato ad interessare anche altri palati, sebbene qualche volta caduta in tentazione per accontentare gusti foresti piuttosto che mantenere le sue peculiarità.

Pizza che col nuovo millennio ha saputo rinnovarsi e non accontentarsi più di essere considerata l’alternativa economica al ristorante ma riappropiarsi quasi di una nuova identità, frutto di ricerca per la miglior materia prima da utilizzare, di studi e prove per l’impasto più digeribile, di passione spasmodica per la rivalorizzazione dei prodotti del territorio.

Pizza napoletana che nel 2014 è stata riconosciuta Specialità tradizionale garantita dall’Unione Europea, ottenendo il marchio di qualità STG, fatta da mani abili e volenterose che quasi inconsciamente ne hanno costituito un’arte, riconosciuta a dicembre 2017 nella Lista rappresentativa del Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco. Considerato da sempre un lavoro umile e di fatica, l’arte del pizzaiuolo si tramandava di padre in figlio e necessitava di una paziente e performante gavetta: prima si imparava a domare il fuoco, passando giornate su giornate a muovere quella pala dentro e fuori la bocca rovente del forno; solo in seguito, acquisita una certa confidenza di cottura, si era promossi al bancone, per conquistare abilità di stesura e farcitura. Un impegno costante, che questo riconoscimento finalmente rivaluta con orgoglio e amor proprio e stimola ad una maggiore consapevolezza di professionalità.

Pizza che non conosce più confini, osannata in ogni luogo del mappamondo terrestre, celebrata e raccontata nelle più importanti manifestazioni gastronomiche, capace di reinventarsi ogni volta sorprendentemente unica sotto le mani sapienti dei maestri pizzaiuoli.

“Se c’è un cibo che rispecchia le abitudini alimentari del passato, del presente e del futuro, questo si chiama pizza. In un’apparente contraddizione, c’è tutta la valenza di questa pietanza che da Napoli ha saputo scalare gerarchie sociali, diventando punto di incontro di culture alimentari, fatto di costume e fenomeno economico” Giovanni Mento, Presidente Nazionale della Federazione Italiana Pizzaiuoli nel mondo – da l’Arena del 23.01.2015

LA PAROLA AI MAESTRI

 Gino Sorbillo, l’inarrestabile Pizzaman

il genio che ha saputo coinvolgere socialmente la pizza napoletana, che ha sfidato e incantato i palati milanesi,

che ha solcato l’oceano per approdare nella Grande Mela, senza mai dimenticare le sue origini

(Photo Credit Antonio Allocca)

“La pizza è la mia vita. Il mio alimento quotidiano, la mia professione e la mia storia sin dalla primissima infanzia, ben prima che iniziassi a lavorare, da ragazzo, nella pizzeria di famiglia. Di una cosa sono convinto: la pizza deve costare poco. E’ un alimento popolare, nato per sfamare, non va tradito completamente”.

Enzo Coccia, il Pioniere

tra i primissimi ad allargare oltre il confine partenopeo i valori di Identità, Tradizione e Territorio, Ambasciatore del Gusto e recentemente nominato, insieme ad altri 12 esperti, membro del comitato tecnico per l’Anno del Cibo Italiano 2018 promosso da Mibact.

(Photo Credit Luciano Furia)

“Tanti anni fa ho incontrato il Maestro Gualtiero Marchesi. In quella occasione mi disse: “Enzo, non devi essere un manipolatore di dischi di pasta ma un pizzaiolo di pensiero”. Per molto tempo ho riflettuto su questa frase e oggi ne comprendo pienamente il senso. Per me la pizza napoletana non è solamente l’utilizzo di ingredienti e materie prime di ottima qualità ma è interpretare ed esprimere i valori di Identità, Tradizione e Territorio”.

Ciro Salvo

imminente la sua apertura londinese, dove sicuramente strabilierà i vicini d’Oltremanica col suo migliore 50 kalò,

perchè 50 sono le sfumature che caratterizzano la sua appassionata pignoleria nella scelta delle farine,

nella loro quasi illimitata idratazione allo stremo della lavorabilità,

nella scelta dannatamente oculata dei migliori ingredienti campani che,

 con sapienza e viscerale meticolosità, si traducono nella sua incredibile pizza

(Photo Credit Ciro Salvo)

“La pizza era il mio gioco preferito da bambino, poi è diventato il mio hobby e poi fortunatamente il mio lavoro. Non potrei vivere senza.”

Franco Pepe, l’Authentico

l’Artigiano moderno, Ambasciatore del Gusto, con l’antica passione per la pizza, impastata ancora a mano,

portavoce ora anche di un’Authentica esclusiva accoglienza nel suo locale

(Photo Credit Tuukka Koski)

“La mia pizza è stata frutto di esperienze maturate dopo un percorso fatto di panificatori e poi pizzaioli, da intendersi come esperienze lavorative di mio nonno Ciccio (panificatore) e mio padre Stefano (pizzaiolo). La mia pizza inizia da una sintesi del genere, poi con il mio percorso c’è un approfondimento non solo del buono ma cerco di capire quanto sana potrebbe essere la mia pizza. Oggi, sicuramente, posso dire che oltre alla bontà dell’impasto e del “saper fare” ereditato da nonno e papà, posso pensare che la mia pizza abbia degli aspetti giusti dal punto di vista di apporto nutraceutico, di sana alimentazione e quindi una pizza più sana”.

Guglielmo Vuolo

recentissima la sua apertura nella città di Giulietta e Romeo, da sempre orgoglioso e intransigente artigiano verace,

 nel contempo alla ricerca di un impasto più leggero e digeribile per tutti,

esaltandolo nella pizza napoletana 100% Made in Italy all’acqua di mare pura e certificata italiana,

arricchendolo del miglior pomodoro campano selezionato nella sua originale ed esclusiva Carta dei Pomodori ©,

di cui ne trasmette ampia diffusione attraverso i suoi Pummarola Tour

 

“Mi ritengo un artigiano. Amo far la pizza più che parlarne. Sono praticamente 50 anni che mi accompagna se considero che ho iniziato a metterci le mani su che ne avevo otto. “Margherita” e le altre sono diventate le peggiori nemiche di mia moglie alla svelta. Oltre praticare l’arte napoletana secondo la tradizione, amo ricercare. Credo di aver sperimentato ogni possibile impasto ma resto fedele a quello verace, “profumato” da una manciata di farina Tipo 1. Con i classici, le mie ricette ispirate al mare (con le alghe, ad esempio, ma anche col pesce azzurro) e alla terra (ho recuperato la portulaca, per dirne una e sono un fan accanito del pomodoro campano). Al forno o fritte, come i bottoni o le arepas napoletane”.

 Renato Bosco, il Pizza Ricercatore

Ambasciatore del Gusto, sempre in perfetto equilibrio tra tradizione e cultura a cui aggiunge innovazione e ricerca

(Photo Credit Mauro Magagna)

“In questo momento siamo agli inizi di una nuova generazione di pizzaioli molto più evoluti e attenti rispetto al passato. Attraverso la formazione, la cultura e la tecnica, il pizzaiolo si è costruito la base per poter costruire il proprio percorso. Nel  futuro vedo la pizza sempre più identificata in un vero e proprio piatto, un proposta attenta alla salubrità, dove il pizzaiolo condurrà il cliente in una bella, sana e buonissima esperienza gastronomica.”

 

Simone Padoan, il Moderno

Ambasciatore del Gusto, precursore della pizza gourmand,

o come meglio preferisce lui stesso definire da degustazione, perchè ricorda il gesto dell’assaggio

(Photo Credit Aromi)

La pizza ha sempre fatto parte della mia vita… Ha naturalmente tracciato il mio percorso. Ha fatto diventare ciò che oggi è i Tigli e sicuramente traccerà il futuro dei Tigli e dei suoi volti.

Articolo e foto pizza di Cinzia Martellini Cortella

 

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