E’ cominciato tutto col mosto cotto con cui gli antichi romani conservavano la frutta.
E’ nel De re rustica, che Catone e Columella ci danno precise indicazioni e Apicio, nel De arte Coquinaria, spiega come conservare le more con la sapa e le mele cotogne con un misto di miele e sapa. Tuttavia queste ricette non prevedevano l’aggiunta di senape, che era invece usata per preparare salse con cui insaporire carni e verdure.
La prima ricetta tramandata risale al primo secolo dopo Cristo. Nel Medioevo viene perfezionata dai monaci che, per avere a disposizione la frutta anche nei periodi di isolamento invernale, al mosto cotto aggiungono i semi piccanti della sinapis alba (senape bianca) o della brassica nigra (senape nera). Una lavorazione davvero lunga, i semi di senape, prima messi a bagno, sprigionano il loro caratteristico aroma piccante solo dopo essere stati macinati, ridotti in una polvere dal caratteristico sapore forte e irritante, oltre ad un odore pungente molto persistente a cui vanno aggiunte adeguate quantità di mosto. Il mosto che brucia, dal latino mustum ardens, una elaborazione che è stata un contributo prezioso tramandato dagli antichi monasteri
I primi documenti che testimoniano la presenza di questa preparazione risalgono al Trecento e sono riferiti alla mensa dei signori di Mantova, ma diverse città del Nord hanno la loro specialità, anche se la più diffusa è quella di Cremona, già citata in un ricettario del 1604. La pianura cremonese, infatti, era ricca di alberi di frutta, che in questo modo si poteva consumare anche nei mesi invernali. Ovviamente il consumo delle mostarde in cucina era riservato alle tavole dei ricchi, infatti accompagnava i piatti di carne, cibo molto raro sulle tavole dei contadini e dei meno abbienti.
Questa preparazione comincia ad assumere le caratteristiche che conosciamo oggi solo alla fine del Settecento, inizialmente destinata ad arricchire le feste natalizie, ma è solo nell’Ottocento che la mostarda si diffonde nella case di tutta Italia, quando lo zucchero viene prodotto a partire dall’economica barbabietola. L’attuale versione della mostarda, sia di Cremona che di Mantova e di Vicenza, risale tuttavia agli inizi del Novecento.
Normalmente a base di frutta, zucchero ed essenza di senape. Si presenta a frutta intera o tagliata a pezzi, immersa in uno sciroppo piccante.
Ha un profumo deciso e un sapore delicato che vira man mano nel piccante, dovuto alla senape.
Perfetta da abbinare ai piatti salati, generalmente servita per accompagnare i bolliti ma ottima anche con i formaggi.
Nella tradizione gastronomica italiana ci sono diversi tipi di mostarda, anche molto diversi fra loro, ma possiamo dire che quelle più conosciute in assoluto sono quella di Cremona e quella di Mantova, entrambe riconosciute come Prodotti Agroalimentari tradizionali dalla Regione Lombardia. .
La mostarda di Cremona ha origini molto antiche ed essendo un prodotto facile da conservare anche a lungo, riscosse un notevole successo presso le cucine medioevali e rinascimentali di tutta Europa.. E’ la più variopinta ed è composta da frutti diversi (mandarini, pere, albicocche, fichi, ciliegie, ecc) canditi interi o a pezzi, immersi in uno sciroppo di zucchero e glucosio addizionato di essenza di senape. Durante il processo di canditura, cioè l’immersione in vasche riscaldate contenenti lo sciroppo zuccherino, la frutta cede la sua parte acquosa e diventa turgida e soda. Le tinte brillanti sono naturali perché non si usano coloranti tranne che per la ciliegia. La maggior parte della produzione è industriale ma esistono anche piccole realtà produttive e da qualche anno è stata riconosciuta la De.Co (denominazione comunale) Mostarda Tradizionale di Cremona.
La mostarda Mantovana, come dicevamo, è molto probabile che derivi da una ricetta del Trecento ed è pertanto tra le più antiche varianti di questa preparazione, ma la sua fortuna aumentò decisamente nel periodo della dominazione austro- ungarica, all’epoca del governo di Maria Teresa. E’ preparata generalmente solo con le mele sbucciate, tagliate a spicchi, candite e conservate in uno sciroppo con essenza di senape. Le varietà utilizzate per questa mostarda sono prevalentemente le mele cotogne, pere o le mele campanine, piccole mele dalla buccia verde e sottile, che lasciate al sole si tingono di sfumature rossastre. Polpa dolce e profumata, viene utilizzata anche per la preparazione di dolci, non teme il freddo e si conserva a lungo. Questa mostarda è solitamente presente anche nei tortelli di zucca.
Esistono poi altre mostarde meno diffuse ma conosciute e molto apprezzate, come la Mostarda vicentina e la Cognà piemontese (Cugnà), e altre ancora che identificano un particolare territorio come la Bolognese. dal sapore asprigno a base di prugne, mele cotogne e frutta mista, tipico ripieno delle raviole;
Forlivese o romagnola, leggermente piccante; alla frutta mista aggiunge tradizionalmente mele cotogne e prugne in prevalenza e la Mostarda fina di Carpi. A base di mele Gagliardine, autoctone, quasi introvabili, e arance, con miele, spezie e gocce di senape.
La mostarda Vicentina o Veneta, piccantissima, veniva consumata esclusivamente durante le feste di Natale come dessert assieme al mandorlato o al panettone ecc. E’ quella più cremosa, la frutta infatti viene passata al setaccio, e il frutto predominante è la mela cotogna, a cui si aggiungono pezzi di frutta (pere fichi celiegie, cedro, scorza d’ arancia e altro) con aggiunta di essenza di senape. Di questa particolare mostarda ne esistono infinite varianti in tutto il Veneto.
La Cognà piemontese (Cugnà) è prodotta nella zona delle Langhe e del Monferrato. L’unica ad essere preparata con il mosto appena pigiato. È a metà strada fra la salsa e la marmellata, e può contenere, oltre al mosto d’uva, mele, nocciole, pere madernasse, frutta secca e spezie. Ottima per accompagnare bolliti, formaggi e anche la polenta. Tipica merenda, spalmata su una fetta di pane casereccio.
In principio fu il mosto che brucia, oggi la mostarda è uno dei più eclettici, indispensabili accompagnamenti di moltissime ricette tipiche regionali
Testo e foto di Giuliana Fabris