L’idea di commemorare i defunti in suffragio nasce da un rito bizantino che celebrava tutti i morti il sabato prima della domenica di Sessagesima, più o meno fra gennaio e febbraio. Nella chiesa latina il rito risale all’abate benedettino Sant’Odilone di Cluny che con la sua riforma del 998 stabiliva che le campane dell’abbazia avrebbero dovuto suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del 1° novembre, per celebrare i defunti. Successivamente il rito fu esteso a tutta la Chiesa Cattolica. Leggenda vuole che si riferisse al periodo del grande Diluvio di cui parla la Genesi. Noè costruì l’arca nel “diciassettesimo giorno del secondo mese”, il nostro novembre, ma le ancor più lontane origini vengono collegate all’antico capodanno celtico, secondo cui, nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre, i morti entravano in comunicazione con i vivi.
La magica notte di Samahin, il capodanno celtico di inizio inverno, era legata all’accantonamento delle provviste che dovevano servire per i mesi invernali, garanzia di continuità. L’uomo ripeteva così il ritmo della natura che sembrava morire con i suoi semi scomparsi sotto la neve ma che tornavano poi a dare nuova vita. I simboli della vita che si preparava nascostamente a rinascere toccavano anche i morti, si credeva infatti che le anime di coloro che erano venuti a mancare durante l’anno avessero il permesso di tornare sulla terra proprio nel giorno di Samahin.
Per i Celti un vero e proprio “passaggio” che appartiene all’eterno ciclo naturale del nascere e dello spegnersi, del letargo e del rifiorire della natura. La grande festa era dunque anche dedicata ai morti e principalmente agli antenati. Nella notte i druidi accendevano il nuovo fuoco e la sua luce veniva portata in tutte le case. Un passaggio in cui si ricordava la storia della propria gente, rinnovando la speranza di non soccombere a sventure, malattie, e morte. Accogliere, confortare e placare le anime dei defunti, perché fossero propizie ai vivi. Da questo nasceva l’abitudine di aggiungere un posto a tavola durante la cena, di lasciare cibo sulla tavola e frutta e latte sulla porta di casa per i propri cari trapassati, oltre a quella di accendere grandi torce sulle strade per illuminare il loro cammino.
In Italia tante tradizioni locali e tanti rituali sono collegati al cibo. Durante questi giorni la famiglia richiama il ricordo di chi è scomparso. È una giornata di raccoglimento, a volte di commozione, ma è anche una giornata in cui ci si riunisce, si mangia, si parla, e in cui viene condivisa la memoria dei propri defunti attraverso le parole e i gesti, un modo di rinsaldare quel legame, nuovamente sentito. La tradizione vuole, a seconda delle regione, che si ravvivi il fuoco del camino, o si lasci del pane e qualche secchio d’acqua perché i defunti possano dissetarsi, ci si alzi presto la mattina rassettando bene i letti affinché le anime dei nostri cari possano usarli per riposarsi, o mettere lumini accesi alla finestra tanti quanti sono i propri morti, qualcuno accende le luci e imbandisce la tavola perché i defunti possano rifocillarsi.
Quello fra cibo e aldilà è un legame molto stretto che ha origini antichissime. Già gli egizi seppellivano i faraoni e i notabili con scorte di viveri, i babilonesi e gli assiri mettevano vicino ai loro morti dei vasi di miele, i greci e i latini usavano mettere cibo e vini sia sopra che dentro le tombe. E ancora oggi, perché i nostri defunti siano benevoli verso di noi e il nostro futuro, ci affidiamo alle tradizioni più antiche e ancora molto vive in tante zone italiane, quelle legate al cibo. Non esiste regione che non abbia nella sua cucina tradizionale un piatto dalla forte valenza simbolica dedicato al Giorno dei Morti, e i dolci sono sicuramente il cibo rituale più diffuso.
Oltre al grano cotto della Colva pugliese, (preparata con chicchi di grano lessato e condito con mosto cotto, semi di melograno, cioccolato, noci e canditi) i dolci più usati sono biscotti di consistenza più o meno dura, in genere a base di mandorle, pinoli, albumi, frutta candita e talvolta cioccolato. In molte regioni italiane questi biscotti vengono chiamati fave dei morti o fave dolci. Differenti, (sono di tre colori, panna, marrone e rosa) ma pur sempre a base di mandorle le favette dei morti diffuse un po’ in tutto il Nord-Est, maggiormente in Veneto e Friuli Venezia Giulia. Nell’antichità le fave erano il cibo rituale che veniva servito nei banchetti funebri. I Romani le consideravano sacre ai morti e ritenevano che ne contenessero le anime, le lunghe radici che affondano in profondità nel terreno, il lungo stelo cavo, secondo le credenze popolari servivano a mettere in comunicazione i morti coi vivi. Nel corso dei secoli vennero sostituite con i dolci a base di mandorle che conosciamo.
In Lombardia si chiamano oss de mord in Umbria stinchetti e in Toscana e Sicilia ossa di morto. Diversi gli Ossi dei morti di Parma, di pastafrolla, ricoperti di glassa di zucchero o cioccolato. In Romagna non può mancare la piada dei morti . In Trentino Alto Adige i cavalli dei morti sono pagnotte dolci a forma di cavallo che si richiamano all’antica mitologia greca, alla dea Epona, che accompagnava i morti nell’oltretomba. Un altro dolce è il pan dei morti, preparato in modi diversi: a base di biscotti sbriciolati, cioccolato e uvetta in Lombardia, profumato con il pepe in Toscana, a forma di mani incrociate in Sicilia. In Campania si usa preparare il torrone dei morti, o morticiello un torrone morbido a base di cioccolato
In Sicilia, regione che ha la tradizione più ricca di dolci legati al giorno dei Morti, oltre alle ossa di morto già citati, si preparano le Rame di Napoli, particolari biscotti ricoperti di glassa al cioccolato tipici di Catania, i pupi di zuccaro, piccole statuine di zucchero a forma di pupi siciliani o di personaggi del folclore e delle fiabe; gli scardellini, i mustazzoli, la frutta Martorana, dolci di mandorle e pasta reale a forma di frutta, le Dita di Apostolo, piccole crespelle di soli albumi, farcite di ricotta e cannella, dolce nato in Calabria ma diffusissimo anche in Sicilia. In Sardegna le pabassinas il cui nome richiama l’uva passa presente nel loro impasto fatto di Sapa, frutta secca e miele, diversamente profumate (cannella, vaniglia, arancio e limone o semi di finocchio) secondo le zone.
Il Giorno dei Morti è una celebrazione antichissima legata ai ritmi della natura, la fine di un ciclo e l’inizio, dopo la semina, di quello nuovo, ma è allo stesso tempo necessaria a tener vivo il legame con i propri defunti, è un giorno in cui ci si veste pesante perché l’aria è ormai diventata fredda, il sole sbiadisce, i fiori pian piano si seccano e cadono, foglie rosse e gialle formano folti tappeti su cui camminare; tutto fa pensare alla fatica, al riposo, al sonno, al passato, il pensiero ritorna su ciò che è stato e più facilmente si evocano le ombre, si parla con loro. Il giorno dei morti fiori e lumini riempiono il cimitero di ogni paese con un’aria quasi di festa se non fosse per quelle foto ovali con piccoli volti in bianco e nero di un tempo sparito, sorridono lontani perché nulla li può più toccare.
Anna Calabrese – Torrone dei Morti
Elena Broglia – Pan dei morti lombardo
Fabiola Palazzolo – Mustazzuoli
Katia Zanghi – Scardellini
Manuela Valentini – Le rame di Napoli
Sabrina Gasparri – La piada dei morti
Tina Tarabelli – Fave dei Morti
Testo di Giuliana Fabris
1 Comments
Le fave dei morti –
3 Novembre 2017 at 8:59
[…] armelline, i semi delle albicocche o delle pesche. Le ricette per prepararle sono molte, per la giornata nazionale dei dolci dei morti del Calendario del Cibo Italiano io vi darò quella di Roberta, una delle mie amiche più care, bravissima in cucina, che conoscete […]
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