La frègula di Sardegna compare forse per la prima volta in una fonte storica spagnola nel 1611, elencata insieme ad altre tipologie di pasta essiccata col nome di “frigola”: poco male, è lei, la regina delle paste sarde.
Nella prima metà dell’Ottocento tra le attestazioni spicca la voce di Vittorio Angius, che a proposito di Sassari commenta riguardo alle paste: «Quelle di manifattura sarda si fanno in molte case, come sono la fregula, gli gnocchi, i tagliatelli, i maccheroni filati, i maccheroni a cannuccia, e si vendono in vari sitii. Quelle di manifattura genovese si manipolano in gran numero di fabbriche, e si vendono anche a’ paesi d’intorno».
Qualcuno continua a confondere il couscous e la frègula, che sono blandamente imparentati, come cugini e non come fratelli. La frègula è di diversi diametri, il più piccolo diametro della frègula corrisponde al diametro comune del couscous… Il couscous viene cotto al vapore, in quella che in italiano si chiama cuscussiera, la frègula sarda nell’acqua o nel brodo, o anche risottata.
Non chiamatela fregola per favore, perché fregola in lingua italiana è l’eccitazione sessuale degli animali durante il periodo della riproduzione, per estensione una smania o un desiderio eccessivo.
Come si fa la fregula? Non è presto detto perché esistono diverse versioni della ricetta. Occorre un tianu o scivedda, recipiente di ceramica con il bordo alto, che le massaie sarde usano anche per impastare il pane.
In secondo luogo occorre dell’ottima semola di grano duro, acqua o tuorlo d’uovo, secondo le preferenze, sale e un pizzico di zafferano, per chi vuole.
La frègula si ottiene mescolando la semola con pochissima acqua o tuorlo attraverso sapienti movimenti rotatori che formano delle palline, più o meno regolari, di vari calibri. Un tempo era un classico che le giovani donne e i bambini venissero messi a separare i grani grandi (frègula grossa) da quelli medi e piccoli.
Naturalmente ha bisogno del sole o del forno per essere essiccata perfettamente, e qualcuno la fa anche tostare brevemente; in questo modo i grani assumono una coloritura più scura e diseguale da grano a grano, con un sapore più deciso.
La frègula grossa è ottima nelle paste asciutte, tradizionali e innovative, come le insalate di pasta e le frègule risottate. Quella media, forse la più amata, per pastasciutte con salsa di pomodoro e/o pecorino, tipo sa frègula incasada, con pecorino o vaccino secondo le zone, con le arselle (sardo frègula cun cocciula), le carni e le verdure, come carciofi e cardi, ma anche in minestre con legumi, ortaggi, patate. Infine quella piccola può essere cotta nel brodo di carne o di pesce, o come una polentina. Ogni famiglia ha le proprie ricette e preferenze, me ne sono accorta quando su Facebook ho chiesto ai miei “amici” una ricetta con sa frègula e ho ottenuto una cinquantina di risposte, spesso diverse. C’è anche qualche cuoca creativa che usa la frègula per dei dolci, unita ai classici sapori sardi: la ricotta, il miele, gli agrumi, la sapa…
Qualcuno infine fa cuocere la fregula piccola nel brodo, facendo assorbire il liquido, un po’ come per il couscous precotto moderno.
L’etimologia di fregula è dibattuta, il verbo fricare, che indica anche il movimento di strofinio, potrebbe avvicinarsi ad un etimo storico accettabile. Anche il nome è discusso, la variante fregua è molto comune, ad esempio, ma non ne mancano altre: nella variante logudorese si chiama succu, nella variante tabarchina, lingua parlata nell’Isola di San Pietro, cascà, perché i liguri che popolarono l’isola provenivano da Tabarka, in Tunisia e si portarono dietro un po’ di pietanze nord africane in Sardegna. Altrove, nella Sardegna centrale, lo chiamano ministru, da minestra, prima portata di un pasto, che può essere in brodo o asciutta, verosimilmente dal latino ministrare, ossia servire in scodella o piatto.
Concludo con la ricetta di Luciana Ortu, scrittrice (suo il romanzo Il gusto della vita) e bongustaia, originaria della Marmilla, dove i prodotti derivati dal grano duro sono davvero eccellenti.
Si tratta della minestra di cardo selvatico, scuro, spinoso e straordinariamente buono, ecco la ricetta: «Bisogna munirsi di guanti per pulire le foglie, è prassi igienica assai utile a evitare annerimento delle mani e punture malefiche. Dopo averlo pulito dai filamenti e dalle spine, si mettono a mollo i pezzi nell’acqua acidulata dal succo di un limone. Appena tutte le foglie sono state accudite, basta anche solo un cardo, non è necessario che sia un mazzo completo… ne occorre poco, si prepara un soffritto di aglio con olio extravergine di oliva e si butta il cardo tagliato a tocchetti. Si fa insaporire con un pizzico di sale, si ammorbidiranno i tocchetti… e quindi si aggiunge la quantità necessaria di brodo vegetale per cuocere un po’ di pastina. Si fa bollire il cardo nel brodo per 5 o 6 minuti, poi si butta la manciata di frègula media necessaria. Si serve, per chi gradisce, con formaggio grattugiato spolverato sopra e crostini di pane».
Si ringrazia l’Antropologa Alessandra Guigoni per questo meraviglioso approfondimento regalato ai nostri lettori.
2 Comments
PATRIZIA MALOMO
10 Luglio 2017 at 15:56
Come sempre un post illuminante e pieno di informazioni nuove ed interessanti.
Un caro abbraccio Alessandra e grazie infinite.
Daniela @SenzaPanna
11 Luglio 2017 at 8:37
Bellissimo questo post. Mi hai fatto venire fame 😉
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