I’ve just written a new biography of Garibaldi
‘Oh yes, the biscuit manufacturer’. John Parris, The Guardian
Dispiace dirlo, ma noi Italiani, agli Inglesi, non stiamo troppo simpatici. Quello che pensano di noi è condensato tutto in una parola, quell’“Italians” pronunciato dall’ufficiale britannico davanti a Diego Abatantuono e al suo manipolo di soldati in uno spezzone ormai di culto di Mediterraneo: un misto di superiore e rassegnato disprezzo, verso un popolo arruffone, disordinato, maneggione e sempliciotto, ingiustamente benedetto da cieli azzurri e sole caldo.
Due sole sono le eccezioni alla regola: il cibo e il Risorgimento.
Nei riguardi del primo, essi hanno l’ammirazione sconfinata di chi è tanto onesto da ammettere che certe vette, per lui, sono irraggiungibili- e tanto vale mettersi il cuore in pace e mangiare.
Nei riguardi del secondo, invece, hanno l’ammirazione, ancor più sconfinata, di chi riconosce qualcosa di intimamente proprio in qualcun altro: il che, nella prospettiva storica che accomuna tutto il Popolo della Regina, questo significa trovare un pezzetto di Inghilterra anche in quel mondo barbaro ed estraneo che- pare- esista al di là della Manica. Per cui, ecco scattare la solidarietà, la simpatia, l’accoglienza e, in qualche caso, anche gli appoggi più concreti: militari, economici, diplomatici.
Non me ne vogliano i nostalgici dell’Italia s’è desta, ma sono anni che ormai si riconosce che senza gli Inglesi i Savoia non ce l’avrebbero mai fatta. E probabilmente non ci sarebbero stati gli Inglesi se non ci fossero stati un tal Mazzini Giuseppe da Genova e un tal Garibaldi Giuseppe da Nizza, i primi a coinvolgere l’Europa in un progetto repubblicano, laicista e liberale, l’uno con i discorsi, l’altro con le azioni sul campo.
Se Londra fu la patria dell’esilio di Mazzini, l’Inghilterra fu un viaggio di passaggio per Garibaldi, che qui sbarcò una prima volta (nella contea di Tiny) nel 1854, quando già era l’Eroe dei Due Mondi, con un carisma tale da imprimersi nella memoria di tutti gli Inglesi.
Tant’è che, quando il re dei biscotti, lo scozzese John Carr, decise di dar vita ad una nuova creatura, negli anni dell’Unità, non ebbe esitazioni nella scelta del nome: Mazzini era l’elite, Garibaldi era il popolo. E Garibaldi Biscuits furono i suoi nuovi biscotti.
Dal punto di vista culinario, i Garibaldi Biscuits sono shortbreads: anche se la fabbrica dove nacquero era collocata in Inghilterra, John Carr era scozzese e aveva questo impasto nel DNA. Tant’è che li ricordano anche nella forma, con le decorazioni dei rebbi della forchetta. La struttura è però quella di un sandwich piatto, farcito con uvetta e tagliato poi a mo’ di biscotto rettangolare.
Il successo fu immediato e collettivo: spopolarono tanto nei tè della Regina Vittoria quanto fra il popolo. Ben presto sorsero anche leggende sulla loro origine, spesso collegate ai soprannomi che vennero loro affibbiati: per qualcuno, l’ispirazione venne quando Garibaldi, dovendo nutrire le sue truppe, sfinite dopo una battaglia, non avendo altro a disposizione, intrise nel sangue dei cavalli morti delle fette di pane, subito bersaglio delle mosche: da qui il nome “fly biscuits” e altre macabre variazioni a seguire (“dead fly biscuits” o “fly cemetery”). Chi li chiama “squashed fly biscuits” sostiene invece che essi nacquero come commemorazione di quella volta in cui Garibaldi si sedette inavvertitamente su una Eccles Cake, schiacciandola sotto il peso delle sue nobili terga. Le mosche, comunque, restano e, per chi non lo avesse capito, sono richiamate dall’uva passa, con un collegamento che farebbe passare l’appetito a chiunque, tranne che al popolo britannico che, da oltre 150 anni, continua a consumare imperterrito questi biscotti e, da qualche tempo, anche a prepararli in casa, a dispetto di chi sostiene che il prodotto confezionato sia ineguagliabile.
Garibaldi Biscuits
Ingredienti
145 g di farina 00 + quella per la spianatoia
5 g di lievito (baking powder, lievito non zuccherato né vanigliato)
2 g sale
35 g di burro morbido
35 g di fruttosio (o zucchero di canna integrale) + quello per la superficie
35 g di latte intero
80 g di uvetta
1 albume d’uovo
Preriscaldate il forno a 180°C.
In una ciotola setacciate la farina con il lievito ed il sale, quindi unite il burro morbido ed impastate con le punte delle dita ottenendo un composto sabbioso. Unite quindi il fruttosio (o zucchero di canna) ed il latte ed amalgamate bene in modo da avere un impasto omogeneo.
Dividete quindi il composto in due parti di uguale peso e stendete entrambe su di una spianatoia infarinata ottenendo due rettangoli di 20×15 cm.
Spargete su di uno di essi l’uvetta, ricoprite con l’altro rettangolo di impasto e stendete nuovamente il composto con il mattarello, quindi rifilate i bordi ottenendo un rettangolo di 18×28 cm. Ritagliate dal rettangolo i vostri biscotti che saranno lunghi 7 cm e larghi 3 cm, poneteli su di una teglia coperta con carta da forno, spennellateli con l’albume che avrete sbattuto e spolverizzate con un pizzico di fruttosio (o zucchero di canna). Cuocete per circa 12 minuti, quindi sfornate e fate raffreddare completamente prima di servire.
Fonte
Smith Delia, Delia’s Cakes, Hodder & Stoughton, 2013 – http://starbooksblog.blogspot.it/
Testi a cura di Alessandra Gennaro
Fotografie a cura di Sara Sguerri
3 Comments
La gaia celiaca
2 Giugno 2017 at 16:47
Sono deliziosi. Li ho scoperti con lo starbooks di Delia Smith, e poi li ho rifatti così tante volte da finire nel mio libro.
Bellissimo articolo è anche le foto! Bravissime!
Marcella
2 Giugno 2017 at 19:13
Anch’io li ho,fatti seguendo le induzioni di Delia. Ottimi!!!
Cristina Galliti
3 Giugno 2017 at 14:53
Che storia curiosa e appetitosa come questi biscotti. Mai sentiti nominare. Grazie per la condivisione!
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