Che il cibo sia per l’Arte una fonte inesauribile di ispirazioni e’ cosa nota. Meno noti, forse, sono i diversi significati che questo ha via via assunto nella storia dell’Arte in generale e nei percorsi dei singoli artisti in particolare. All’origine, come sempre, una necessita’, fisica, in primo luogo, ma anche estetica e spirituale: perche’ se e’ innegabile che si mangi per necessita’ e’ altrettanto vero che noi uomini dobbiamo in qualche modo creare le condizioni perché sia soddisfatta anche la necessità di bellezza. E lo facciamo trasformando un semplice piatto di minestra in qualcosa di gradevole alla vista, oltre che al palato.
Con l’atto del “far da mangiare” nutriamo corpo e spirito, trasformiamo materie prime e cuociamo alimenti, e questo è peculiare della razza umana. Vediamo il cibo non solo come bisogno primario, ma anche come materia plasmabile, da ammirare, da offrire, da percepire con tutti i sensi. Cibo per godere dei piaceri della vita, sovente accostato alla sensualità e sessualità.
Mangiare con gli occhi, avere l’acquolina in bocca, divorare con lo sguardo, consumare un matrimonio, nutrire appetiti sessuali, partire per la luna di miele, come vediamo il nostro comune modo di esprimerci è tempestato da locuzioni gastronomiche.
Tutto ciò che riguarda l’alimentazione diventa preziosa fonte di ispirazione per chi voglia esprimersi pittoricamente e plasticamente, riproducendo cibi, bevande, tavole imbandite, cucine ricche di utensili, dispense colme di ogni ben di Dio.
Questo, si sa, è privilegio di pochi fortunati dotati di capacità espressive fuori dal comune, degli artisti appunto, capaci ogni volta di meravigliarsi e meravigliarci. Noi comuni mortali possiamo ammirare le loro opere e farci trasportare dal flusso emotivo, e questo è già un grande privilegio. Possiamo scoprire il linguaggio del cibo, che ha valenza istituzionale, sacra, immaginifica, antropologica, sociale, culturale…, attraverso l’arte.
La storia della raffigurazione dei cibi è forse vecchia quanto l’uomo, ed è per noi un immenso catalogo di usi e costumi di genti e civiltà.
Troppo vasto da poter racchiudere in poche righe, ma questo è il CALENDARIO DEL CIBO ITALIANO, cerchiamo di scoprire come artisti italiani hanno rappresentato la civiltà culinaria sviluppatasi nello stivale nel corso dei secoli, anzi dei millenni.
La vitalità che trapela dalle raffigurazioni murali delle tombe etrusche è qualcosa di straordinario, la testimonianza visiva di una comunità gaudente e ricca, che riusciva a trasferire nell’aldilà le abitudini di vita del defunto.
Il meraviglioso affresco della tomba dei leopardi, nella necropoli etrusca di Tarquinia è esemplare: raffigura un uomo che banchetta su un triclinio, ed ha un calice di vino nella mano sinistra e un uovo nella destra, simbolo della continuità della vita attraverso la rinascita.
Nelle tombe etrusche veniva perfettamente ricreato l’ambiente nel quale il defunto aveva vissuto, anche con strumenti e suppellettili della cucina. E così sappiamo per esempio dell’uso della forchetta, o del colino.
Anche nella società romana il banchetto costituisce un comune denominatore tra il mondo terreno e l’aldilà. Pitture, sculture e arredi funerari ritraggono spesso il defunto banchettante sdraiato sul kline.
Nel periodo imperiale la simbologia del banchetto allude alla caducità della vita e invita al pieno godimento dei piaceri della tavola. Pensiamo a Lucullo e Nerone, ma soprattutto a Trimalcione, nel Satyricon di Petronio. In due coppe d’argento del famoso Tesoro di Boscoreale sono raffigurati scheletri di filosofi e letterati greci affiancati da scritte che invitano al godimento dei piaceri della vita.
Le prime nature morte della storia dell’arte sono romane, le Xenia. Tra le tante, un Vaso di cristallo con frutta (I sec. d. C.) affresco proveniente dalla Villa di Boscoreale, ora al Museo Archeologico di Napoli, con la presenza di una melagrana aperta, promessa di resurrezione legata al culto di Proserpina. Il Pavimento non spazzato (II sec. d. C, Musei Vaticani), è una sorta di pavimento mimetico raffigurante i resti di cibo caduti a terra, che non venivano raccolti prima della fine del banchetto perché ritenuti sacri. Il famoso Canestro di fichi della villa di Poppea a Oplontis ricorda quanto questi frutti fossero importanti nella dieta degli antichi romani. Ancor più sorprendente è un pavimento a mosaico del I sec. d. C. conservato a Palazzo Massimo a Roma. Il mosaico riproduce un cesto di frutta che nasconde un vero mistero. In esso, sono riprodotti partendo da sinistra, alcuni fichi, delle mele cotogne, un grappolo di uva nera, alcune melagrane e un alimento impossibile: un ananas.
Roma e Pompei erano costellate di affreschi e mosaici che fungevano anche da insegne di botteghe. L’affresco pompeiano che riproduce la bottega del fornaio è vivido e attuale, non vi sono grandi differenze con i banconi e gli scaffali delle moderne panetterie.
Nel periodo cristiano il banchetto assumerà un diverso significato, strettamente rituale. Nelle catacombe romane dei S.S. Marcellino e Pietro si trovano diversi affreschi raffiguranti banchetti in cui il vino è protagonista e simbolo dell’agape. È visibile uno scaldabevande, testimonianza dell’uso di allungare il vino con acqua calda in inverno (e con acqua fredda in estate). Nelle Catacombe di San Callisto, sempre a Roma, compare un affresco con pani e pesci, i simboli più ricorrenti nella cristianità.
Nell’alto Medioevo il cibo era considerato dono di Dio e frutto di duro lavoro. Sono rare le scene di banchetti, mentre abbondano scene agricole e di trasformazione delle materie prime. Il grano si raccoglie e si trasforma in farina e poi in pane, l’uva in vino, le olive in olio. Il cibo era considerato necessità di nutrimento e non fonte di piacere.
Solo nel tardo Medioevo appaiono scene di banchetti, feste, osterie, tavole imbandite, mentre nel Rinascimento e nel Barocco il cibo diviene addirittura il protagonista delle tele, studiato fin nei minimi particolari nelle nature morte. Si torna a rappresentare il cibo come modello estetico, energia cromatica, varietà ed equilibrio di forme. Ma anche i luoghi del cibo diventano importanti: la cucina, la bottega, il mercato.
Tra gli affreschi dei fratelli Zavattari, che si possono ammirare nel Duomo di Monza, dedicati alla Regina Teodolinda, spicca quello che raffigura le sue nozze con Autari. Sul tavolo un particolare soltanto ci rivela che si tratta di una festa di nozze: i confetti. Il loro uso, riservato ai matrimoni, diffusosi in Tutta Italia, proveniva dalla Sicilia, e, ancora prima, dagli Arabi.
L’uovo è uno dei simboli più rappresentati, spesso decontestualizzato e inserito in scene sacre.
Nella Sacra Conversazione, o Pala di Brera, Piero della Francesca raffigura un uovo in chiave simbolica, sospeso al centro della cavità absidale a forma di conchiglia, e al di sopra della testa ovoidale della Madonna. L’uovo è una forma ricca di significati, anche filosofici, come quello di comunicare che nulla è tanto piccolo da non rientrare in una proporzione universale. Al contempo è quasi immateriale, pura luce, non si ravvisa sulla parete la sua ombra.
È questa l’ultima opera di Piero, che negli ultimi anni della sua vita, a causa della perdita della vista, abbandonò la pittura per la pura speculazione matematica.
Frequentissimo soggetto è il banchetto, sacro o profano, si potrebbe disquisire dell’argomento a lungo e delineare una storia del banchetto in pittura.
Tra i banchetti più rappresentati nella storia dell’arte figura L’ultima cena, immediatamente seguita da la Cena in Emmaus e da Le Nozze di Cana.
Un affresco dell’ultima cena, nella chiesa dei Santi Vittorio e Corona a Feltre, pone davanti a Cristo quattro gamberi di fiume rosso fuoco, che gli puntano contro le chele con atteggiamento minaccioso. Troviamo lo stesso soggetto in un affresco attribuito a Dario di Pordenone (1420-1498) nella chiesa di San Gregorio a Treviso, e in una “Cena in casa di Simone” nella chiesa di Santa Maria in Solario a Brescia. Si contano almeno centocinquanta rappresentazioni dello stesso soggetto, utilizzato come simbolo di sacrificio, per il colore rosso assunto durante la cottura, e di rinascita, per il fatto che rinnova il carapace ad ogni cambio di stagione. A partire dal XII secolo i gamberi, e i crostacei in generale, indicano il passaggio dalla morte alla rinascita, dalle miserie della vita terrena allo splendore della vita ultraterrena. Anche la loro rappresentazione nelle nature morte seicentesche nasconde un simbolismo sacro.
L’ultima Cena della Cappella degli Scrovegni a Padova, opera di Giotto, è di chiara ispirazione medievale, ma sono evidenti le conquiste prospettiche ed espressive tipiche del grande precursore della pittura moderna. Il cibo non compare, la tavola è appena visibile, alcuni apostoli voltano le spalle allo spettatore, a differenza del Cenacolo di Leonardo da Vinci, che dispone tutti i soggetti dell’affresco di fronte allo spettatore, evidenziandone gesti ed espressioni del viso, tutte diverse. Straordinaria l’attenzione ai dettagli della tavola: i piatti, i bicchieri riempiti per metà, i numerosi pani appoggiati lungo tutta la tavola, le pieghe della tovaglia, che presenta un fine ricamo azzurro. Ad ogni apostolo è attribuito un bicchiere, un coltello e un piatto con del pesce, altro simbolo eucaristico. Un particolare significativo è rappresentato dalla saliera fatta cadere da Giuda, in contrapposizione a quelle piene di Giacomo e Matteo. Il significato va trovato nelle parole del Sermone della montagna, nel Vangelo di Matteo, “il sale della terra”, come Gesù definisce gli apostoli. Giuda avrebbe sprecato l’occasione di diventarlo, come dimostra il sale versato.
Completamente diversa è l’impostazione dell’Ultima Cena del Tintoretto, conservata nella Chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia. Siamo all’interno di una tipica taverna veneziana, la cena è un banchetto pasquale ebraico con l’agnello, il brodo di lattughe selvatiche, i pani azzimi. Sul tavolino di servizio si distinguono la pisside per le particole, il secchiello e l’aspersorio per l’incenso, mentre al centro della stanza una bacinella e un asciugatoio per il lavacro rituale dei ministri del culto. La tavola è inquadrata dall’alto con inclinazione obliqua, c’è buio ma anche tre fonti di illuminazione che determinano forti contrasti chiaroscurali. Una delle fonti di luce proviene dal Cristo che spezza il pane e lo distribuisce. Al centro della scena il vivandiere rifiuta vistosamente la manna offerta dalla lavapiatti, preferendo la frutta fresca sulla credenza. La manna è una sineddoche dell’ebraismo e la frutta rappresenta la promessa cristiana della felicità eterna.
L’ultima cena di Paolo Veronese, titolata successivamente Cena in casa di Levi, è una tela di enormi dimensioni conservata alle Gallerie dell’Accademia a Venezia. È in linea con il linguaggio pittorico dell’artista, che ama le composizioni di grandiosità corale, le pure esaltazioni di colore e di luce, nelle quali troviamo l’incanto della Venezia del tempo, con i suoi costumi sfarzosi e raffinati. I personaggi si affollano tra le monumentali scenografie architettoniche come su un palcoscenico teatrale. L’ambientazione è in un sontuoso palazzo in stile palladiano, con logge e scalinate sormontate da maestose colonne, affollate da un gran numero di “comparse”. Si contano ben trentotto servitori, tra i quali lo scalco, il credenziere, il trinciante e i coppieri. La tavola, coperta da sontuose tovaglie, è riccamente imbandita: vini bianchi e rossi in coppe di finissimo cristallo, un grande vassoio con un pollo intero e un agnello, altri vassoi ricolmi di prelibatezze, persino una torta con un disegno a forma di croce. È decisamente una tavola barocca che inneggia addirittura allo spreco e alla lussuria, secondo l’Inquisizione, con le figure di un gatto che gioca con un osso sotto la tavola e di un pappagallo sul braccio di un nano, accarezzato da un moro. Questa tela costò al Veronese una convocazione ufficiale dal Tribunale dell’Inquisizione. Veronese riuscì comunque a fornire una plausibile spiegazione alle sue scelte pittoriche, ma dovette cambiare il titolo dell’opera.
Caravaggio dipinse due Cene in Emmaus, a distanza di pochi anni, molto diverse tra loro, anche se in ambedue l’artista fa sedere Cristo alla tavola di una taverna, e l’oste è testimone di uno dei più solenni dei suoi atti. La prima, del 1601-2, conservata alla National Gallery, è un vero e proprio trionfo del barocco per l’abbondanza del cibo e l’arredo della tavola. Vi sono piatti, bicchieri, pani di diverse forme, un pollo e un canestro di frutta che “sfonda” la tela, sporge dal tavolo esattamente come la più famosa natura morta del Caravaggio, anzi direi la più famosa natura morta della storia dell’arte. Alcuni critici ritengono che ogni alimento rappresentato abbia un preciso significato simbolico: il pollo la morte, pane e vino la vita, il melograno la Resurrezione dopo il sangue versato, l’uva nera la morte e l’uva bianca la vita, il pesce, disegnato dall’ombra del canestro, il Cristo. La seconda Cena è completamente diversa, molto più frugale, sobria. È una tavola di poveri pellegrini dove il pane, il pesce e una brocca di vino sono i pochi elementi per il desco. Dopo aver vissuto gli anni più tragici della sua vita, l’assassinio e la fuga, Caravaggio conferisce a questa opera una cupa drammaticità, quella della sua anima inquieta.
L’atmosfera sensuale di un baccanale dionisiaco trapela senza dubbio nell’affresco di Giulio Romano a Palazzo Te a Mantova: Banchetto nuziale di Amore e Psiche. Si tratta di una scena mitologica in cui, oltre ad Amore e Psiche e alla figlia Voluptas, compaiono Cerere, Giunone, Dioniso, le Ore, Mercurio e Pan, che distribuisce il pane. Tutto è scintillante e fastoso, dal vasellame alla tavola, dal mobilio ai drappeggi. Il Marchese Federico II Gonzaga commissionò Palazzo Te a Giulio Romano per farne un sontuoso rifugio dove vivere in libertà la relazione con l’amante Isabella Boschetti.
Il Banchetto di Antonio e Cleopatra di Giambattista Tiepolo si svolge in una elegante scenografia ambientata nel ‘700 veneziano. La profondità è data da colonne e porticati, e da uno splendido pavimento marmoreo, costituito da geometrie bianche e nere che immediatamente costruiscono la visione prospettica. Gli ospiti conversano attorno ad un tavolo riccamente addobbato con pizzi, mentre valletti e servitori di colore portano grandi vassoi. Cleopatra offre ad Antonio un frutto preso da un’alzata posta al centro della tavola, chiaro riferimento biblico. Gli unici elementi in comune con l’opera di Brueghel sono le anfore per le bevande e il cane, ma in Tiepolo il cibo è secondario, e invece l’artista vuole sottolineare l’aspetto sensuale dei due personaggi principali, quasi un convivio amoroso.
La cena di Cleopatra di Alessandro Allori, ispirata a Plinio e Macrobio, fu commissionata da Francesco I de’ Medici, ed aveva la funzione di proteggere lo scaffale destinato alle perle, nella stanza del tesoro del Granduca, con dotta allusione al soggetto rappresentato.
Si tratta di una scena notturna, illuminata da torce infuocate. Sullo sfondo le statue di Giunone e Venere, riferimenti all’opulenza e alla seduzione. Cleopatra ha già bevuto l’aceto nel quale era stata disciolta la perla del primo orecchino, e sta sfilandosi il secondo orecchino, ma la mano del giudice la ferma. Sulla tavola finemente apparecchiata si distinguono un melone, un’alzata di datteri e un piatto di cedri, che, per il loro nome in botanica, “mala medica”, rimandano al nome della casata del committente.
Due saliere d’oro, ornate l’una con figura maschile, l’altra con figura femminile, rimandano alla famosa saliera d’oro che Benvenuto Cellini forgiò per il re di Francia Francesco I, e alla quale non possiamo non dedicare un piccolo spazio.
Teoricamente classificabile come un utensile, è in realtà un raro gioiello, unico nel suo genere. Vero “monumento da tavola”, rispettava, e superava, per il suo intrinseco valore, le mode dell’epoca che volevano tavole sontuose ornate con oggetti e vasellami preziosi, di solito argenterie, cristallerie e fini porcellane, in occasioni di feste ed eventi importanti. Il primo committente fu il cardinale Ippolito d’Este, che chiese a Benvenuto Cellini una saliera che “avrebbe voluto uscir dall’ordinario di quei che avean fatto saliere”. Ma lo stesso cardinale impallidì di fronte al primo progetto che l’artista gli sottopose, complesso e costoso, esclamando che solo un re come Francesco I di Francia avrebbe potuto sostenere un progetto così ambizioso. E così fu.
I soggetti principali della saliera sono Nettuno e Gea, che impersonano il mare e la terra. Sono in posizione sinuosamente inclinata all’indietro, uno di fronte l’altro, e le loro gambe s’incrociano, creando una unità molto elegante, dinamica e sensuale. Nettuno, portato in trionfo da quattro cavalli marini, protende il suo braccio armato di tridente, verso un galeone, il contenitore del sale. Gea è circondata da fiori e frutti e siede su un cuscino a forma di elefante, coperto da un drappo blu con i gigli d’oro di Francia. Ha accanto un tempietto, contenitore del pepe, con le statuine di Ercole e Abbondanza. Animali terrestri e marini completano la scena.
Caravaggio apre la via alla pittura di genere, in particolare alla natura morta. Non v’è differenza tra dipingere un quadro di fiori e un quadro di figure, la natura morta è legata, in lui, al pensiero della morte: è la presenza delle cose nell’assenza o scomparsa dell’uomo.
La canestra di frutta, unica natura morta che ci rimane, è inquadrata dal basso, creando un effetto tridimensionale su uno sfondo insolitamente chiaro e luminoso, bidimensionale. I particolari sono fissati con fredda oggettività: la trasparenza dell’uva, la buccia rugosa dei fichi, quella liscia e lucida delle mele, persino il segno di una bacatura e le foglie avvizzite e accartocciate, che simboleggiano la “vanitas” dell’esistenza umana. Apparentemente freddo realismo, nessuna partecipazione o interpretazione, ma la frutta, non della stessa stagione e non della stessa freschezza, sottratta al suo naturale contesto, acquista un preciso significato simbolico. La canestra, rappresentata in modo particolareggiato negli intrecci di vimini, sporge leggermente dal tavolo su cui è poggiata, enfatizzando l’effetto dinamico e tridimensionale. Non possiamo non collegare questa ad altre opere di Caravaggio, come La cena in Emmaus, che riproduce quasi fedelmente la canestra. E poi Bacco adolescente, che presenta lo stesso soggetto ma con diverso significato, Fanciullo con canestro, Bacchino malato, Fanciullo morso da un ramarro, tutte opere in cui è presente la frutta.
Dopo Caravaggio molti artisti, soprattutto fiamminghi, ma anche italiani, produssero nature morte, per accontentare una committenza non soltanto aristocratica, ma composta anche dalla ricca borghesia in ascesa. Sempre più spesso si celebra nelle tele il vero e proprio trionfo del cibo, la ricchezza delle dispense, la ricercatezza degli arredi.
Tra gli italiani vorrei ricordare anzitutto due donne, la milanese Fede Galizia, e la bolognese Giovanna Ganzoni, esponenti di una corrente naturalistica che riproduce il cibo, soprattutto frutta, in tutta la sua varietà cromatica, con minuzia di particolari e attenzione ai giochi di luce.
Sempre tra gli italiani spiccano Pietro Paolo Bonzi, Jacopo di Chimenti, detto l’Empoli, Evaristo Baschenis, Panfilo Nuvolone, Cristoforo Munari, Carlo Magini.
Un posto a parte merita Giuseppe Arcimboldo, l’eccentrico autore di composizioni illusioniste e surrealiste ante litteram, noto per le sue teste composte, nelle quali utilizza ortaggi, fiori, frutti, carni e pesci, oggetti di uso quotidiano. Manierista capace e competente, padroneggia perfettamente le tecniche pittoriche e figurative della migliore scuola lombarda del XVI° secolo. Sbalorditivo nel saper trovare nuove soluzioni utilizzando il solito stile. Fu molto imitato nei secoli successivi, e in effetti fu un grande innovatore e inventore di uno stile personalissimo, senza precedenti.
Nella ricca produzione del cremonese Vincenzo Campi spicca una serie di opere di notevoli dimensioni e ricchissime di particolari, atte a rappresentare i luoghi del cibo, soprattutto le botteghe. Sono scene vivaci e colorate, con prosperose fanciulle sorridenti e un’abbondanza di delizie.
La pescivendola è ambientata all’aperto e rappresenta un banco del pesce, forse al mercato. In primo piano spicca un cagnolino dal lungo pelo bianco che gioca con una donna sorridente con in braccio il suo piccolo. Un uomo alle sue spalle sta incoraggiando il bimbo a mangiare con smorfie e versi. Dietro al bancone vediamo la venditrice con ogni tipologia di pesci, conchiglie e molluschi. Sullo sfondo si scorgono il porticciolo e i pescatori.
Anche La fruttivendola è ambientata all’aperto. Una bella e giovane ragazza espone la frutta e la verdura in maniera molto ordinata. Ogni tipologia di frutta e verdura è riprodotta con minuziosità, gusto della forma e del colore. Per ognuna c’è un diverso contenitore, ma notiamo che sono frutti con diversa stagionalità; dunque un gusto cromatico ed estetico fine a sé stesso. Vediamo carciofi, zucche, asparagi, ciliegie, fichi, uva, tutti maturi e freschi, uno spettacolo della natura, un trionfo dei colori.
Di Annibale Carracci tutti conosciamo il Mangiafagioli, divenuto la rappresentazione del cibo per antonomasia, per essere stato spesso utilizzato come copertina di riviste e ricettari. Ma un’altra sua opera è ancor più interessante, La grande Macelleria, una scena di vivido realismo. In primo piano cadaveri squartati di animali sovvertono i criteri estetici della pittura manierista, per affermare le nuove tendenze realistiche e naturalistiche. Un cliente illustre figura sulla sinistra, quasi in posa caricaturale: è una guardia svizzera dei gonfalonieri della città di Bologna. Carracci, che proveniva da una famiglia di macellai, evidenzia sulla destra, appeso al muro, il bando del cardinale Paleotti, che aveva interdetto la vendita della carne durante la quaresima. Un bando che sicuramente aveva messo in difficoltà la categoria.
Per inquadrare le opere di Pietro Longhi bisogna riferirsi al mondo teatrale, in particolare al teatro goldoniano, ispirato alla vita reale. Allo stesso modo del conterraneo commediografo, il pittore Longhi tesse un’attenta cronaca di costume e società contemporanea, riproducendo scene di vita quotidiana della Venezia del suo tempo, con grazia ed eleganza, e nel contempo onesto realismo.
Negli orti dell’estuario è un’opera nella quale viene rappresentata una zuppiera ricolma di insalata, con tre donne, forse le proprietarie dell’orto, e un gentiluomo imparruccato, autoritratto del pittore. Un’altra famosa opera è La polenta, che raffigura la pietra miliare dell’alimentazione veneta. Dopo la carestia del 1630 si ricorre al mais per sconfiggere la fame. Ma l’affermazione della polenta gialla avviene nel ‘700, non solo come alimento contadino, ma anche come accompagnamento di pietanze prelibate.
Sempre dello stesso autore è l’opera La lezione di geografia, nella quale il caffè è una presenza discreta ma significativa. Negli stessi anni Carlo Goldoni scriveva La bottega del caffè, una bevanda ormai alla moda. All’inizio il caffè, importato dall’Etiopia e dalla Turchia, era gravato da tasse pesanti, dunque destinato all’aristocrazia. Durante l’Illuminismo si diffuse molto in Italia e in Francia, grazie anche alle caffetterie frequentate dagli intellettuali. Il caffè divenne l’emblema del risveglio dello spirito critico dal torpore dell’oscurantismo.
La venditrice di fritole ancora una volta ci rimanda a Goldoni e alla sua commedia Campiello, in cui una delle protagoniste è appunto una venditrice di fritole. I fritoleri sin dal ‘600 si riunirono in Corporazione, il cui luogo di ritrovo era la Chiesa della Maddalena, vicino alla Ca’ d’oro. Una ricetta precisa, che veniva tramandata di padre in figlio, regolava la preparazione delle gustose frittelle, da gustare durante tutto l’anno, non solo in periodo carnevalesco. Gli ingredienti venivano impastati su grandi tavole di legno, poi piccoli pezzi di impasto venivano fritti in olio o strutto, zuccherati ed esposti in piatti di stagno, assieme a pinoli, uvetta e canditi, che ne provavano la bontà. Come dimostra la scena fissata nel quadro di Longhi, le fritole venivano infilzate in uno spiedo per poter essere comodamente consumate per strada, senza sporcarsi le dita. I fritoleri attiravano le persone con gesti teatrali, cospargendo continuamente zucchero ed esibendo la merce per spargerne le fragranze. Venezia fu la prima città in Europa ad utilizzare il costoso zucchero al posto del miele, grazie ai propri domini e alle rotte commerciali. Riusciva perfino a produrlo nei propri possedimenti a Cipro e a Candia (isola di Creta), dove la canna da zucchero aveva facilmente attecchito, trovando un clima ideale. Il termine “candito” deriva infatti proprio da Candia, primo luogo di produzione dei frutti cotti nello zucchero candioto, i candii, appunto.
FRITOLE VENEZIANE
La ricetta delle fritole veneziane è una delle più antiche conservate su un documento di gastronomia, presso la Biblioteca Casanatense a Roma, in un manoscritto anonimo del XIV secolo che contiene più di cento versioni attribuite ad un cuoco veneziano. Vi si trovano anche indicazioni per la preparazione delle fritole bianche, composte da latte, mandorle e farina.
Fritelle bianche. A ffare fritelle bianche, toy late de mandole e formento, e sfarinato destempera insiemae lassali levare, po’ fa le fritelle. Quando sono cocte, polverizali del zucharo e sono bone.
Troviamo le fritole anche nel ricettario di Bartolomeo Scappi, col nome di “frittelle alla veneziana”.
Faccianosi bollire sei libbre di latte di capra in una cazzuola ben stagnata, con sei oncie di butirro fresco e quattro oncie di acqua di rose et un poco di zafferano et sale a bastanza e come il bollo si comincia a alzare si poneranno dentro due libbre di farina a poco a poco, mescolando continuamente con il cocchiaro di legno, sino a tanto che sarà ben soda come la pasta di pane: poi cavasi et pongasi in un vaso di rame, ovvero di terra, mescolandola con la cocchiera di legno o con le mani fino a tanto che la pasta sarà diventata liquida; finito che sarà di meter l’ove, battesi per un quarto de ora, fino a tanto che faccia el visiche e lascisi riposare per un quarto d’hora nel vaso ben coperto in luogo caldo e rigettasi un’altra volta.
Poi abbasi apparecchiata una padella con strutto dandogli il fuoco, et muovasi la padella facendo che le frittelle si voltino nel strutto. Come si vedrà che abbian preso alquanto di coloretto e saranno leggiere, cavisino con la cocchiera forata e servisino calde con succaro sopra.
BIBLIOGRAFIA
Roberto Carretta- Renato Viola: “Tavole d’autore”, Il leone verde Edizioni
Elisabetta Bodini: “Dalla tela alla tavola”, Jouvence Historica
Alberto Veca: “Natura morta”, Arteddossier Giunti
Silvia Malaguzzi: “Arte e cibo”, Arteddossier Giunti
Giulio Carlo Argan: “Storia dell’arte italiana”
SITOGRAFIA
https://it.wikipedia.org/wiki/Pietro_Longhi
http://www.venezianews.it/index.php?option=com_content&task=view&id=6088
FONTI ICONOGRAFICHE
Figura1 Natura morta con uova, cavolo e candeliere, Carlo Magini http://www.galleriacanesso.ch/Carlo-Magini-Still-life-with-Eggs-Cabbage-and-Candlestick-DesktopDefault.aspx?tabid=6&tabindex=5&objectid=440421&lg=it
Figura2 Tomba dei leopardi https://it.wikipedia.org/wiki/Tomba_dei_Leopardi
Figura2bis vaso di cristallo, affresco pompeiano http://www.famedisud.it/il-cibo-dellantica-pompei-in-mostra-a-milano-fra-natura-mito-e-paesaggio-di-un-sud-millenario/
Figura3 Pavimento non spazzato http://www.econote.it/2013/01/27/una-stanza-non-spazzata/
Figura4 Tacuinum sanitatis http://www.foliamagazine.it/le-50-miniature-piu-belle/la-vendemmia-tacuinum-sanitatis-in-medicina-fine-xiv-secolo-osterreichische-nationalbibliothek-vienna/
Figura5 Sacra conversazione, Piero della Francesca https://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_conversazione
Figura6 Cena in casa di Levi, Veronese http://senzadedica.blogspot.it/2012/07/il-pittore-e-linquisitore_28.html
Figura7 Canestra di frutta di Caravaggio http://cultura.biografieonline.it/caravaggio-canestra-frutta/
Figura8 Estate di Arcimboldo http://cultura.biografieonline.it/estate-arcimboldi/
Figura9 Venditrice di fritole, Pietro Longhi http://www.ricettedicultura.com/2014/02/fritole-veneziane-storia-dolce-carnevale.html
Fotografia di copertina, scatto in still life ispirato all’opera di fede galizia, Alzata d’argento con Ciliegie e una Farfalla, a cura di Tamara Giorgetti
Testo a cura di Maria Teresa Cutrone – De Gustibus Itinera